Formazione, più che parlarne serve farla

La formazione è la chiave di tutto. Lo si dice per i lavoratori come per le imprese. Migliorare (upskilling), oppure riposizionarsi sul mercato (reskilling) sono attività strategiche se si vogliono vincere le sfide dell’innovazione ed evitare che, per mancato aggiornamento, persone e imprese siano escluse dal mercato.

Tuttavia, non può sfuggire il paradosso per cui, secondo Forbes, se da un lato il 62% dei CEO italiani dà all’education il ruolo di “must have per la crescita dell’azienda, dall’altro lato alla voce formazione (che include “sicurezza”, “231” e “antincendio”) è destinato l’1,9% del costo del personale. In numeri assoluti, sono circa 780 euro all’anno per tutta la formazione di un lavoratore, e il costo medio complessivo è poco superiore ai 41mila euro. Volendo fare un confronto con altre unità, la formazione è pari allo 0,6% dei ricavi aziendali, a fronte di un 3% destinato al Marketing. Per le imprese italiane, l’aggiornamento professionale vale un terzo rispetto alle controparti tedesche e francesi.

Stando a questi dati, sembra che le aziende non abbiano alcun interesse all’upskilling del proprio staff. Tuttavia, un’indagine di Edenred Italia ha rilevato che neanche il lavoratore risulta così interessato a migliorare le proprie competenze. Se il 76% degli intervistati si dice soddisfatto dei piani di welfare aziendali – nel dettaglio ci si riferisce a fringe benefit, mobilità e assistenza sanitaria come le voci protagoniste dei servizi messi a disposizione – training e formazione, invece, restano in seconda linea.

Qualificare le persone rende le aziende competitive

Questo fa tornare in mente l’antico e irrisolto quesito se sia meglio un uovo oggi o una gallina domani. Per esempio, con l’asilo vicino all’ufficio (l’uovo), si evita l’angoscia di passare ore nel traffico ogni mattina; l’auto aziendale (altro uovo) alleggerisce la spesa corrente delle famiglie. Invece, per valutare e trarre vantaggio dei benefici di un percorso di upskilling o reskilling (la gallina) è richiesto del tempo. Se ne deduce che il welfare, così com’è in Italia, è statico: è ancora legato all’identità definita dai suoi padri fondatori, ovvero è il ‘paracadute’ al lavoratore qualora la famiglia cresca, l’azienda sia in difficoltà o, più semplicemente, è il sostegno in aggiunta alla busta paga. In un Paese con gli ascensori sociali bloccati, però, anche al welfare è richiesta una trasformazione strutturale; un impegno che richiede lo sforzo di tutti, dalle istituzioni alle parti sociali, includendo il singolo lavoratore.

La formazione, infatti, è un diritto, ma anche una necessità. E perfino un dovere. Eppure non è obbligatoria, se non quella relativa alla sicurezza. Ma c’è una cosa ancora più paradossale: i corsi tecnici e quelli di valorizzazione delle soft skill non sono una voce del welfare propriamente detto, cioè non rientrano in quelle policy, pubbliche e private, dirette a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Questo indica che all’azienda manca la vision di farne un’effettiva leva strategica di crescita, ma il lavoratore è privo della sensibilità a investire su di sé, auto-formandosi, migliorando in termini di carriera, stipendio, cultura professionale.

Tutto questo è un guaio. Anzi, è un handicap che incide sulla già bassa produttività del sistema Italia. Il mondo va proprio nella direzione della formazione spontanea. Altrove, infatti, il lavoratore è responsabile della propria competenza altrettanto quanto la sua azienda. Quando si parla di ‘lifelong learning si fa riferimento al lavoratore del futuro – pardon, del presente – che non può più permettersi di aspettare di ricevere gli strumenti di aggiornamento professionale da un ente superiore e provvidenziale. D’altra parte, l’impresa deve rendersi conto che un personale qualificato le permette di innovare i macchinari, entrare in nuovi mercati, più semplicemente essere competitiva.

welfare, formazione, upskilling, lifelong learning


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Davide Conforti

Co-Founder & CEO di OfCourseMe

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