Il sindacato ha ancora un futuro?

Con il venir meno delle grandi aziende, ha ripiegato su categorie iper-protette come dipendenti pubblici e pensionati.

Ho recentemente partecipato a un incontro online con Sergio Cofferati, ex Segretario Generale della Cgil, dal titolo emblematico Che fine ha fatto il sindacato. Come noto, ‘il Cinese’ da anni ha abbandonato l’attività sindacale per nuove esperienze in politica; il suo cuore, tuttavia, continua a pulsare con forza, appassionato testimone di un periodo ormai consegnato al passato.

È fuori discussione che il sindacato abbia perso la presa di un tempo, quando non c’era notiziario televisivo che non si aprisse con le immagini della triade di ex sindacalisti Lama-Carniti-Benvenuto ospiti fissi in prima serata e protagonisti delle prime pagine degli organi di stampa nazionali.

Lo scenario è cambiato. Probabilmente la maggior parte degli italiani ignora il nome degli attuali leader confederali perché altro fa notizia: ridottesi a poca cosa le grandi fabbriche, autentici spazi di confronto e spesso di scontro, il sindacato ha finito con il ripiegare sul mondo iper-protetto della Pubblica amministrazione e dei pensionati riducendosi a difenderne i non pochi privilegi. I più deboli, i giovani, parrebbero non rappresentare una priorità, una bandiera per cui combattere, tanto da rafforzare, spesso a ragione, la convinzione che la responsabilità del nostro declino nasca da queste non scelte.

Portando come esempio le proprie giovanili esperienze di uomo di fabbrica, Cofferati ha giustamente sottolineato che per risolvere i problemi “occorrerebbe conoscere le cose dal di dentro”. Già, ma come, se le grandi organizzazioni (partiti politici, sindacati e buona parte delle stesse principali realtà imprenditoriali) a causa di una miope mancanza di lungimiranza da tempo hanno chiuso quelle scuole che contribuivano a formare buona parte della futura classe dirigente? La mitica gavetta grazie a cui generazioni di leader avevano imparato a ‘sporcarsi le mani’ ormai fa parte dei ricordi del passato.

La mancanza di una bussola per il nuovo contesto

Dopo anni in cui la politica ha cercato, con tentativi talvolta maldestri, di sostituirsi ai rappresentanti dei lavoratori, senza averne le competenze e le sensibilità necessarie, ci hanno pensato l’esplosione dello Smart working e della Gig economy con i loro algoritmi a creare dinamiche sconosciute e imprevedibili all’interno di un quadro che richiederebbe al contrario doti visionarie di assoluta eccellenza e una difesa del bene comune purtroppo sempre più assoggettato a interessi di bottega.

Una cosa purtroppo è evidente: abbiamo perso in questi anni tanti punti di riferimento, con il quadro d’insieme nettamente compromesso. Con buona parte del Paese in mani straniere, oggi è diventato persino difficile difendere un principio chiave come quello dell’italianità del lavoro. Il caso Fiat ne è la prova recente, nonostante l’astuzia di Sergio Marchionne, ex Amministratore Delegato del Gruppo, nel superare schemi ormai obsoleti. C’è un sistema di relazioni industriali che non è pronto per competere nell’arena globale, ancora vincolato a una visione storicamente arcaica.

Un uomo nato alla fine dell’Ottocento, Giuseppe Di Vittorio – bracciante, figlio di bracciante e leader storico della Cgil – rivelò nel Dopoguerra un coraggio ‘eretico’ che contribuì a porre le basi del miracolo economico italiano. Fece scelte audaci, a volte controcorrente, si ritrovò sempre a fianco nei momenti importanti di imprenditori come Angelo Costa e di uomini del fare del calibro del banchiere Donato Menichella e dell’economista Pasquale Saraceno. Tutti insieme, con una politica che diceva come stavano le cose e prendeva le decisioni giuste, trasformarono un Paese agricolo in un’economia industrializzata.

Abbiamo la fortuna di avere ancora tanti piccoli imprenditori e qualche capitano di industria che hanno sempre saputo mantenere saldo il contatto con le loro radici e con la loro gente, chiedendo sacrifici alla dirigenza per proteggere i propri dipendenti con investimenti a favore di welfare e occupazione. Facciamo in modo che i loro sforzi non siano vani. In fondo il senso delle parole di Cofferati è stato molto semplice: guardarsi negli occhi, ritrovare un senso del fare e dell’agire comune a costo di saper rinunziare a qualcosa per un interesse superiore. Buone relazioni sindacali, nelle realtà grandi o piccole, hanno sempre portato buoni risultati.

Qualche volta non farebbe male ricordare la tempesta finanziaria perfetta che negli Anni 90 investì l’Italia, candidata a entrare in Europa con i conti completamente fuori controllo. Fu Carlo Azeglio Ciampi che seppe individuare con le parti sociali un percorso fatto di dure scelte come il blocco della contrattazione e la politica dei redditi. Oggi la cosiddetta concertazione viene trattata con malcelato fastidio, dimenticando che la parola nasce dal mondo della musica per descrivere l’orchestra che si prepara all’esecuzione armonica di un pezzo. Proprio quello che servirebbe all’Italia, che nel 2020 avrebbe potuto dedicare maggiore attenzione al centenario della nascita di questo grande statista. Un gigante se paragonato al nanismo politico dei giorni nostri.

Smart working, gig economy, sindacato, Sergio Cofferati, Carlo Azeglio Ciampi


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Antonio Rinetti

Ex Direttore del Personale di un importante istituto bancario e attualmente Consulente HR.


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