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Il sonno della ragione… non genera Pil

Viene naturale chiedersi come mai l’Italia è sempre stata in ritardo a capire e interpretare i nuovi trend nel mondo del business. Come già argomentato nelle precedenti ‘puntate’ (vedi i link in fondo all’articolo per leggere le altre parti della riflessione), è stato proprio il non capire che cosa stava succedendo nel mondo a farci perdere posizioni negli ultimi 30 anni.  Sicuramente complici di ciò sono state le miopi strategie di sviluppo promosse dai Governi e la scarsa presenza in Italia delle grandi aziende, che sono quelle più capaci strutturalmente delle Piccole e medie imprese (PMI) a intercettare i nuovi trend.

Vale però forse la pena di fare anche qualche considerazione culturale. Come mai i nostri imprenditori non sono stati capaci di capire che dovevano modificare i loro modelli di business? Perché non hanno capito che cosa stava cambiando e/o che cosa fare a riguardo? Forse è solo perché non hanno più le motivazioni che avevano i loro predecessori 50 anni fa? Per quanto riguarda in generale la capacità degli italiani di interpretare che cosa sta succedendo, vale forse la pena di approfondire.

Se è vero che gli italiani sono probabilmente creativi e geniali in una percentuale di popolazione superiore a quella di altri Paesi, quanto bravi sono, invece, in generale a capire che cosa sta succedendo e come reagire a riguardo? Interessante una fotografia fatta da Ocse-Piacc nel 2003, cioè proprio negli anni in cui abbiamo perso i trend più importanti. Tale fotografia riguardava la capacità delle popolazioni in termini di alfabetismo funzionale (cioè, per quanto riguarda il nostro ragionamento, la capacità di capire le relazioni causa-effetto in quanto accade intorno a noi e fra obiettivi e azioni, corrispondente a un livello di alfabetismo funzionale superiore a ‘3’: “Competenze sufficienti per poter analizzare un testo di cui si ha familiarità”). Ebbene, in tale confronto internazionale, l’Italia risultava posizionata molto male, con un analfabetismo funzionale di livello ‘3’ di ben sette volte superiore a quello dei Paesi nordici. Rilevazioni più recenti (Ocse Pisa del 2015) riscontrano addirittura che il 43% della popolazione italiana tra i 16 e i 65 non raggiunge neanche il livello ‘3’. La cosa che può sconcertare di più è che non ricordiamo discussioni su tale problema in quegli anni, come del resto non si discuteva neanche del degrado economico. Ma anche oggi se ne parla molto poco.

Rimediare alle carenze culturali

Sicuramente complice di ciò è stata anche la nostra stampa, fatto in parte confermato dal suo posizionamento oltre il 41esimo posto mondiale in libertà-affidabilità della comunicazione. I dati odierni di confronto del nostro livello di scolarità, dei test sugli studenti e anche (ahimè) del quoziente di intelligenza, ci confermano comunque che qualche problema di capacità tecnico-culturale ce l’abbiamo e che questo aspetto va sicuramente affrontato, a partire ovviamente dalle modalità e contenuti degli insegnamenti scolastici. Purtroppo, qualunque cosa facciamo a riguardo, non potrà incidere sul breve termine, ma dobbiamo prevenire assolutamente ulteriori rovinose incapacità di seguire le evoluzioni del mondo del business anche nei prossimi decenni. Se vogliamo competere con gli altri Paesi su aspetti di innovazione, modelli di business e produttività, dobbiamo assolutamente capire che cosa fare per rimediare a queste carenze di fondo della nostra popolazione a tutti i livelli.

A conclusione di questa mia lunga analisi, che aveva l’obiettivo di capire dove abbiamo sbagliato negli ultimi decenni e dove sono le opportunità di sviluppo per riposizionare il sistema economico italiano in modo più competitivo, occorrerebbe ora capire come impostare un piano a riguardo (approfittando anche dei finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza). Avendo ben chiaro ben chiaro il contesto di business e tecnologico in cui ci troviamo, il problema è ora quello di attivare azioni con effetti a diverso orizzonte temporale per costruire qualcosa che ci consenta di sopravvivere nel breve termine, di recuperare i gap strutturali nel medio termine e di attivare una crescita sostenibile nel lungo termine. Occorre assolutamente parlarne e discutere insieme su che cosa fare, coinvolgendo tutti gli stakeholder socio-economici e politici (se ci si riesce), cercando di smentire la brutta fotografia di noi italiani che ha fatto il Censis: “Sonnambuli inerti”.

Leggi la prima parte “Il mal di Pil dell’Italia”

Leggi la seconda parte “Chi inizia male il Millennio è a metà del Pil”

Leggi la terza parte “Digitalizzazione, quante occasioni perse dall’Italia”

Leggi la quarta parte “Fare i soldi con i dati”

economia italia, Pil Italia, modelli business, analfabetismo culturale


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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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