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La formazione passa dalla conoscenza della cultura aziendale

“Perché si fa formazione? Per confermare o per trasgredire l’esistente? Si agisce per formare un mondo nuovo o per conformare quello esistente ai regimi di verità riconosciuti?”, si domandano Emanuela Fellin e Ugo Morelli, autori di un articolo pubblicato sul numero di Novembre 2019 della rivista Persone&Conoscenze. Una formazione che si limiti a rassicurare e confermare lo stato delle cose non serve a nessuno.

Il cambiamento, i possibili –necessari– miglioramenti organizzativi e, soprattutto, i migliori risultati di business nascono dal prender coscienza della distanza tra ciò che si fa e ciò che si potrebbe fare, tra il come siamo e il come potremmo essere.

Questa distanza è, in fondo, la misura dell’energia aggiuntiva che le persone si dichiarano disposte a utilizzare. La formazione, affermano ancora Fellin e Morelli, “è tanto più efficace, quanto più alimenta l’immaginazione”: “La formazione, quando riesce a sostenere apprendimenti efficaci, crea un salto dal possibile all’impossibile”. O meglio: dal possibile all’impossibile e ritorno.

Immaginato l’impossibile è, infatti, possibile renderlo accessibile. La formazione è speranza di miglioramento. Accade in ogni azienda che le persone, al ritorno da un’attività formativa, notino la distanza tra ciò che la lezione ha portato a pensare e la situazione attuale dell’organizzazione in cui si lavora.

Spesso il confronto è frustrante. La formazione sprigiona energie. Affinché, però, non generi ulteriore delusione e nuova depressione è necessario che l’impresa sia in grado di accogliere e valorizzare le energie attivate dalla formazione. Per questo è necessario un impegno comune.

Il committente saprà che le persone torneranno dal percorso formativo ricche di nuova motivazione, ma anche di nuove aspettative. I trainer dovranno, pertanto, conoscere la cultura aziendale, per dosare la loro azione in modo da non generare aspettative troppo elevate.

Purtroppo, l’attenzione per tutto questo sembra scemare. Più facile è accontentarsi di una formazione magari spettacolare, ma easy & fast, che, notano Fellin e Morelli, rischia pericolosamente di restare in superficie. Accade che si creda sempre meno nell’azione trasformatrice e incisiva della formazione. Accade che il docente assecondi troppo passivamente il committente.

Accade che si finisca per mantenersi su temi e obiettivi generici, slegati dalla cultura aziendale e dalla reale situazione delle persone e dell’organizzazione. “Le performance sono sempre eccellenti; la qualità è sempre totale; le decisioni sono sempre ottimali e certe; le strategie sono sempre di successo; la leadership è sempre partecipativa e circolante; le persone sono sempre resilienti…”.

I limiti della pillole formative

Il tempo per la progettazione è sempre più scarso. La giornata di formazione si riduce a poche ore. Di recente, sono stato chiamato a partecipare a un progetto di formazione erogata sotto forma di ‘pillole’. Ho avuto modo di osservare come il budget a disposizione sia stato speso in gran parte per pagare una sala di ripresa, uno sceneggiatore e un regista, riducendo il compenso del formatore, ma non è questo il punto.

Il progetto prevedeva che ogni formatore scrivesse quello che avrebbe altrimenti detto in aula; lo script doveva poi essere rivisto dallo sceneggiatore; a valle di questa stesura, il ruolo del formatore si risolveva nel leggere il testo sul gobbo, durante la ripresa, fingendo, per quanto possibile, spontaneità.

Il formatore diventa così un locutore, o meglio: un avatar digitale di se stesso. Accade anche che il trainer stesso preferisca cambiar nome e chiamarsi Learning experience designer. Una figura derivata da quella dello User experience designer: disegnatore di interfacce di App.

C’è qui una pretesa politicamente pericolosa: disegnare in anticipo, cioè subordinare a regole previamente definite, il modo in cui gli esseri umani, i cittadini, i lavoratori, possono fare esperienza. Cito ancora un passaggio dell’articolo di Fellin e Morelli: “La formazione che è andata di moda, da un certo momento in poi, è stata quella che ha promesso –e tuttora promette– soluzioni automatiche a problemi complessi, con proposte deterministiche e normative”.

Certo, vediamo segni che portano a pensare che si preferisca oggi coltivare illusioni passeggere. Ma Fellin e Morelli nel loro articolo ci invitano a continuare a credere nella formazione che interroga e richiede impegno. D’altra parte non ci sono scorciatoie tecnologiche o surrogati che possano sostituire Socrate in aula. E poi è importante la compresenza personale, fisica, non solo virtuale, perché la memoria del corpo aiuta il pensiero.

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Francesco Varanini

Francesco Varanini è Direttore e fondatore della rivista Persone&Conoscenze, edita dalla casa editrice ESTE. Ha lavorato per quattro anni in America Latina come antropologo. Quindi per quasi 15 anni presso una grande azienda, dove ha ricoperto posizioni di responsabilità nell’area del Personale, dell’Organizzazione, dell’Information Technology e del Marketing. Successivamente è stato co-fondatore e amministratore delegato del settimanale Internazionale. Da oltre 20 anni è consulente e formatore, si occupa in particolar modo di cambiamento culturale e tecnologico. Ha insegnato per 12 anni presso il corso di laurea in Informatica Umanistica dell’Università di Pisa e ha tenuto cicli di seminari presso l’Università di Udine. Tra i suoi libri, ricordiamo: Romanzi per i manager, Il Principe di Condé (Edizioni ESTE), Macchine per pensare.

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