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La ripresa ci sarà creando nuove occasioni e puntando su digitalizzazione e competenze

L’Italia mostra segnali di ripresa, si parla di una crescita del Prodotto interno lordo (Pil) del +6,2% nel 2021. Un segnale positivo che deve tuttavia fare i conti con le interruzioni delle value chain – le catene mondiali del valore che hanno trainato l’economia globale negli ultimi due decenni – con la carenza delle materie prime, con l’inflazione e l’aumento dei prezzi dell’energia. C’è poi da evidenziare che la Banca centrale europea (Bce) potrebbe frenare l’acquisto dei titoli di Stato. E lo scenario va calato nel nostro tessuto industriale, fatto prevalentemente di Piccole e medie imprese (PMI) che sanno rimettersi in gioco con resilienza, ma che non hanno ancora completato i percorsi di digitalizzazione e faticano a reperire le competenze che servono. Ci aiuta a interpretare lo scenario Mario Deaglio, Professore Emerito di Economia Internazionale nell’Università di Torino e curatore, da un quarto di secolo, dell’annuale Rapporto sull’economia globale e sull’Italia del Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi.

Professore, come dobbiamo leggere questi dati? Possiamo ragionevolmente essere ottimisti?

L’Italia sta vivendo uno dei più grandi ‘rimbalzi’ tra i Paesi europei, che segue però a una delle cadute più rovinose. Dai dati di Confindustria in cui si fa il punto sulla produzione industriale dai tre anni prima della crisi a oggi, emerge la caduta del 2020 a cui segue il rimbalzo, che si rafforza nella prima parte dell’anno e ora si sta indebolendo, perdendo circa tre punti sui mesi precedenti. Attenzione quindi a pensare che siamo fuori dalla crisi: quel 6,2% del Pil è in linea con il sentiero lento, troppo lento, che già stavamo percorrendo prima.

Rispetto al tema degli approvvigionamenti, nel 2021 alcuni eventi non direttamente correlati al covid, come il blocco del canale di Suez, hanno portato molte aziende a ripensare le filiere. Si modificheranno le Global value chain?

La questione degli approvvigionamenti è un tema mondiale. Negli ultimi 20 anni si è investito molto nelle comunicazioni e assai poco nelle strutture dei trasporti, soprattutto a livello merci: porti, autostrade, ferrovie sono stati largamente trascurati soprattutto nei Paesi ricchi. Su questa apatia di lungo periodo si è inserita un’improvvisa e forte domanda, come reazione al ‘risparmio forzato’ delle prime due ondate di covid, ed è questo che mette il sistema in crisi. Per esempio, il caso della coda di navi che a ottobre 2021 attendevano di scaricare al largo del porto di San Francisco ci dice che quell’infrastruttura non è in grado di gestire un numero di container al giorno così elevato e questo allunga le operazioni. Il porto dovrebbe ora assicurare un funzionamento di 24 ore al giorno, ma è una soluzione temporanea che non risolve il problema generale.

E come vede la situazione in Italia?

In Italia la situazione è migliore perché, rispetto agli altri Paesi, abbiamo un tessuto di PMI che esprimono capacità ad ampio raggio e in tutti (o quasi) i settori industriali, dal meccanico al chimico al farmaceutico. La catena delle decisioni in queste realtà è molto rapida, gli imprenditori agiscono in poche ore; un vantaggio rispetto alle multinazionali che devono coinvolgere nel processo decisionale comitati e Consigli di Amministrazione. Siamo stati protagonisti di una ripresa maggiore degli altri anche perché siamo in grado fornire materiali e prodotti da cui dipendono altre filiere. Penso soprattutto alle industrie meccaniche della Lombardia e del Veneto, che sono di fatto le principali fornitrici delle industrie tedesche dell’Automotive. Ora speriamo riparta tutto il sistema, anche per quanto riguarda le infrastrutture: si moltiplicano i cantieri edilizi, anche al di là di quelli cittadini sostenuti dal Bonus facciate. Quando il sistema si rimetterà globalmente in moto, saremo sulla buona strada. Che sarà comunque in salita.

Il nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è un’opportunità. Basta quello o al Paese serve altro?

Al momento è una buona opportunità per rimediare a ciò che non abbiamo fatto negli ultimi 20 anni. Ma serve una direzione, che ci dica dove andare nei prossimi due decenni. È un modo anche per definire il ruolo che vogliamo giocare. Su quali settori vogliamo puntare? L’ex Primo Ministro britannico, Margaret Thatcher, nel 1980 aveva le idee chiare: chiudere le miniere e investire in altri settori, più moderni e tecnologicamente avanzati. Un piglio decisionale, figlio di politiche industriali che qui da noi non sto ancora vedendo. Per ora stiamo tappando i buchi del passato; solo dopo averlo fatto potremo davvero ripartire definendo la direzione dello sviluppo. Anche Confindustria continua a sottolineare soprattutto ciò che gli altri devono dare all’industria, ma resta l’interrogativo principale: l’industria dove vuole andare? E quali settori bisogna abbandonare e quali inseguire? Quanto sono disposte a investire e a rischiare le imprese?

I primi fondi europei sono arrivati, ma lo sviluppo futuro dipende da come li utilizzeremo…

Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha indicato i sindaci e le autorità locali come i soggetti detentori delle vere chiavi per la ripresa. La connessione tra i fondi, i capitoli di spesa del Pnrr e le imprese deve avvenire a vari livelli, e il più cruciale è quello locale. Purtroppo, è il meno attrezzato o, quantomeno, non lo è ancora in maniera omogenea in tutto il Paese.

Il momento è delicato e le aziende si confrontano anche con la carenza di materie prime. Che impatti avrà tutto questo?

Gli impatti riguarderanno soprattutto il settore dell’acciaio: anche lo stop di Taranto lascia piuttosto deboli nella fornitura proprio noi che siamo molto bravi nella lavorazione di questo materiale. C’è tuttavia da evidenziare che possiamo pur sempre puntare sull’acciaio fine – che si ottiene dal riciclaggio dell’acciaio precedente – dal momento che abbiamo numerosi piccoli impianti del Nord Italia che lavorano egregiamente. Il problema è l’acciaio ‘nuovo’, indispensabile per la costruzione delle grandi opere pubbliche.

Altra questione importante è l’aumento dei prezzi dell’energia. Quali le conseguenze?

Le conseguenze riguarderanno soprattutto altri Paesi poiché abbiamo flussi di materiali energetici che ci arrivano direttamente senza passaggi intermedi. Anche noi avremo difficoltà, ma meno gravi rispetto, per esempio, alla Germania, dove il flusso dell’energia passa da Paesi terzi innescando giochi politici ed economici che influenzano i prezzi. Certo, un inverno particolarmente rigido, potrebbe provocare un’impennata dei consumi di energia, con conseguenze negative sui prezzi e sulla continuità delle forniture.

L’inflazione non è mai stata così alta dal 2012. Che impatto ha sull’economia reale?

Si parla molto di varianti del virus: questa è una variante dell’inflazione da costi che non si era mai verificata prima, perché ora il mondo è interconnesso, gli scambi finanziari avvengono ovunque in tempo reale e l’informazione fluisce rapidamente. La nuova variante dell’inflazione da costi si manifesta a chiazze con effetti variabili e non facilmente prevedibili: l’influenza di alcuni settori, sconosciuti ai più, come quello dei microprocessori per auto, è molto alta e si manifesta in ritardi produttivi prima ancora che in aumento dei prezzi. L’impatto è dunque duplice: i prezzi aumentano e tutta la filiera produttiva ne risente e fatica a tenere il passo dell’inflazione.

Il debito pubblico dell’Italia si attesta circa al 155% del Pil. Potrebbe rappresentare una difficoltà, con l’inflazione che cresce?

Non voglio sminuire il problema del nostro debito pubblico, perché è sicuramente grave, ma la maggior parte del debito lo abbiamo contratto con la Bce: se seguiamo le regole, è improbabile che ci sarà un improvviso crollo di fiducia. Certo, la Bce sottoscriverà nuovo debito pubblico (di tutti i Paesi) in quantità progressivamente minori: se il rimbalzo si trasformerà in ripresa e la ‘macchina’ del fisco sarà migliorata, avremo un aumento di gettito fiscale complessivo senza gravare (troppo) sui bilanci delle imprese e delle famiglie. Non ci sono certezze, ma la strada non è così drammatica. E non credo crolleremo per il debito.

In questo senso immagino che Draghi svolga un ruolo importante…

È stato Presidente della Bce e conosce bene l’economia e le logiche dei mercati. È la persona giusta per tenere tutti sulla retta via almeno nel breve periodo. Di certo per primi due trimestri del 2022.

Questo quadro lascia delle speranze, ma dobbiamo attrezzarci. Dobbiamo avere qualche timore rispetto a possibili reazioni dell’Europa?

Qualche timore rimane, ma possiamo scommettere sul fatto che gli altri ‘soci’ dell’Eurozona non ci faranno mancare il loro aiuto. Non hanno nessun interesse a lasciarci affondare, soprattutto se dimostriamo buona credibilità.

Spina nel fianco di tutte le imprese è il disallineamento tra la domanda e offerta di lavoro. Come si può fronteggiare?

Prima di tutto andrebbe evidenziata la ‘colpa’ della scuola che, negli ultimi decenni, ha rifiutato una collaborazione con il mondo produttivo, a eccezione di poche Regioni come il Trentino e rari altri esempi in Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna. Ai ragazzi e alle ragazze si presentano gli anni della scuola come un idillio al quale seguirà la fatica del lavoro. Niente di più sbagliato. Ci dovrebbe invece essere una profonda interazione e bisognerebbe rivedere i programmi inserendo non tanto i semestri all’estero – per chi se li può permettere sono utili a livello umano e linguistico – quanto le esperienze lavorative vicino a casa, per imparare un mestiere. Non solo nelle officine, ma in tutti i settori. Ora ci sono carenze gravi in moltissime attività, a cominciare dagli autisti per il trasporto merci. È soprattutto insegnando mestieri e offrendo opportunità di lavoro che si stimolano i giovani, non con il Reddito di cittadinanza. Il Centro Einaudi, con cui collaboro da decenni, qualche anno fa lanciò l’ipotesi che la Difesa civile fosse la soluzione: avrebbe potuto assumere per un anno i giovani e le giovani, insegnando loro tecniche di organizzazione e produzione, dando una prima infarinatura professionale. Il tutto pagandoli e con la possibilità di impiegarli nei vari tipi di emergenze, compresa quella climatica, che certo non mancano in Italia: un progetto che sarebbe costato meno di qualunque sussidio.

Cosa possiamo aspettarci per il 2022?

La prima variabile è il virus. Tutti hanno sbagliato le previsioni e, al netto delle varianti, più inquietanti di quanto ci si aspettasse, la prospettiva migliore è che sia un anno di moderata continuazione delle tendenze positive. Non aspettiamoci grandi numeri. Se arriveranno, sarà fra due o tre anni. Il sentiero è pieno di buche da riempire (in Italia e in Europa). Viviamo uno scenario analogo a quello vissuto dopo la Seconda Guerra mondiale: nel 1946 e 1947 ci fu un rimbalzo seguito da inflazione e stasi produttiva. Poi, lentamente, si passò al miracolo economico. Il movimento strutturale della nostra economia è di questo tipo: ci saranno partenze e false partenze, ma questa è la base. C’è poi una tendenza inconscia: si pensa che la ripresa sia qualcosa di dovuto, ossia che qualcuno ci deve dare dopo la crisi. Gran parte delle occasioni, però, le dobbiamo creare noi, proprio come alla fine del secondo conflitto mondiale. Bisogna sapersi reinventare.

Ci può fare qualche esempio?

Gli ingegneri della Piaggio, che all’epoca produceva solo aerei, non avevano più nulla da fare al termine della Guerra e si misero ‘spontaneamente’ a progettare la Vespa, primo grande prodotto italiano di esportazione. L’altro grande progetto fu la macchina da scrivere portatile, la Lettera 22 di Olivetti. Dobbiamo puntare su persone che vogliono perseguire queste strade mettendoci la faccia e i propri capitali (quando sono imprenditori), prima ancora di attendere che siano le istituzioni a offrire occasioni. Le mie sensazioni sono favorevoli. Pensiamo ai negozi in cui si può pagare facilmente tramite App, senza carte: è un sistema che hanno pochissimi Paesi e che è stato inventato da giovani i quali hanno ora costituito una società europea. Speriamo che testa e cuore di questa società rimangano in Italia.

Bisogna creare l’infrastruttura sociale e dare fiducia.

Sì, anche per stimolare i giovani a ‘essere talenti’. Le banche, grazie ai programmi statali in corso di messa a punto con i fondi europei, devono essere in grado di dare fiducia e fondi, investendo con un ottimismo ragionato e razionale. Ancora non sta accadendo troppo spesso.

L’intervista è pubblicata sul numero di Novembre 2021 della rivista Sistemi&Impresa.
Per informazioni sull’acquisto o sull’abbonamento alla rivista scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)

competenze, digitalizzazione, PMI, Mario Deaglio, Sistemi&Impresa


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Chiara Lupi

Articolo a cura di

Chiara Lupi ha collaborato per un decennio con quotidiani e testate focalizzati sull’innovazione tecnologica e il governo digitale. Nel 2006 ha partecipato all’acquisizione della ESTE, casa editrice storica specializzata in edizioni dedicate all’organizzazione aziendale, che pubblica le riviste Sistemi&Impresa, Sviluppo&Organizzazione e Persone&Conoscenze. Dirige la rivista Sistemi&Impresa e governa i contenuti del progetto multicanale FabbricaFuturo sin dalla sua nascita nel 2012. Si occupa anche di lavoro femminile e la sua rubrica "Dirigenti disperate" pubblicata su Persone&Conoscenze ha ispirato diverse pubblicazioni sul tema e un blog, dirigentidisperate.it. Nel 2013 insieme con Gianfranco Rebora e Renato Boniardi ha pubblicato il libro Leadership e organizzazione. Riflessioni tratte dalle esperienze di ‘altri’ manager. Nel 2019 ha curato i contenuti del Manuale di Sistemi&Impresa Il futuro della fabbrica.

Chiara Lupi


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