Lavorare liquido, oltre la retorica dello Smart working

Che lo Smart working non significhi solo ‘lavorare da casa’ lo si sta capendo gradualmente. A un anno esatto dall’inizio della pandemia – quando moltissimi italiani hanno cominciato a spostare dall’ufficio alla propria abitazione il luogo di lavoro – sono tanti ad aver intuito quanto poco smart sia in realtà questa modalità di lavorare. Che potrebbe potenzialmente essere “intelligente” e “furba”, esattamente come dovrebbe essere ciò che è etichettato come “smart”, ma che ancora non lo è. Perché il lavoro agile è un’altra cosa e va oltre il mero concetto di luogo professionale.

“Lo Smart working è opportunità di lavorare fuori dallo spazio fisico dell’azienda, ma è anche e soprattutto una nuova modalità di lavoro che porta con sé una riflessione su cosa significhino il lavoro e il luogo di lavoro per i lavoratori in quanto esseri umani”. A spiegarlo è Chiara Lupi, Direttrice Editoriale della casa editrice ESTE che ha scelto il convegno online Lavorare liquido – Oltre lo Smart working (evento di cui il nostro quotidiano è stato Media Partner) per andare oltre la retorica che da qualche tempo si lega al lavoro agile, provando quindi a offrire una visione lontana dalla contingenza pandemica e fuori dal concetto ormai sedimentato di “lavoro da casa” quale sinonimo di “Smart working”.

Lo Smart working è causa di disuguaglianze aziendali?

Partiamo dai numeri recentemente resi noti dal Censis sulla ripresa del lavoro post Covid, a partire da quello sul lavoro da casa: nel 2020 è stato addirittura il 31,6% dei lavoratori totali a sperimentare il lavoro da remoto, modalità che tuttavia fa paura a molti dipendenti. Per quattro lavoratori su 10, infatti, il lavoro da casa potrebbe essere causa di nuove disuguaglianze aziendali, dal momento che a sfruttarlo sono stati per il 51,5% del totale i dirigenti, il 34,3% gli impiegati e solo il 12,3% gli operai.

D’altro canto, non mancano i giudizi positivi e le opportunità, espresse tanto dalla metà degli Smart worker (che si dice soddisfatta e pronta a continuare in questa maniera il proprio lavoro), sia da Francesco Varanini, Direttore Responsabile della rivista Persone&Conoscenze, secondo cui la situazione che stiamo vivendo non deve dare più per scontate certe situazioni, come “il lavoro dentro un luogo inteso come l’azienda, che è oggi quasi virtuale”. “In questo momento dobbiamo accettare la compresenza di due modi di intenderla, come luogo fisico e come cloud. Il lavoro da remoto nell’anno della pandemia è stata un’esperienza che ci ha insegnato qualcosa ed è utile connettere questo vissuto al nostro concetto di lavoro. Ma che cosa significa il lavoro per noi stessi? Perché la parola ‘smart’ è riduttiva in quanto non coinvolge l’aspetto umano”.

Varanini ricorda inoltre come il lavoro agile come oggi lo conosciamo sia una contingenza. “Per ora è legato a un progetto, ma la politica del lavoro si può cambiare quando c’è convenienza sia per l’azienda sia per il lavoratore”.

Lavoro e vita non devono contrapporsi

Della stessa idea è Marco Beltrami, Responsabile HR di Dallara: “Work e life non possono essere in contrapposizione, per quanto tutti parlino di equilibrio tra lavoro e vita. È evidente che non possiamo separare i due aspetti: se il lavoro non fa parte della mia vita, non sto vivendo il 50% della mia esistenza. Prima di tutto, quindi, facciamo un esame di coscienza chiedendoci se stiamo vivendo la nostra vita oppure no”. La tesi del manager si traduce in questo pensiero: “Cercare un equilibrio significa dare un valore all’uno e all’altro aspetto della propria esistenza generando di conseguenza una contrapposizione tra lavoratore e azienda. Il lavoratore tira la parte della vita, l’azienda quella della produttività”. Ma su questo aspetto Beltrami si chiede: “Vogliamo vivere così?”. La risposta, almeno per quanto lo riguarda è chiara. “Io no, e nemmeno la mia azienda”.

L’equilibrio, quindi, deve passare anche dal prendere in considerazione le persone che per prime sono protagoniste del lavoro da casa, come fa notare Tiziana Rosato, People & Organization Officer di Missoni, preoccupata delle estremizzazioni di questa forma di Smart working, iniziando, come spiegato anche in altre occasioni da Varanini, dalla scelta lessicale per definire la modalità di lavoro. “Si tratta di un termine inventato da noi italiani”, spiega la manager. E lo dice a ragione, visto che nel mondo anglosassone al massimo si parla di “working from home”, oppure di “Remote working” o anche “telecommuting”.

“Mi piacerebbe che non lo chiamassimo più così, ma per quello che è: lavoro da casa o da ogni luogo”, continua Rosato. “Abbiamo chiesto al nostro personale come si trova a lavorare da lì? Pochissime aziende lo fanno. Ma non tutti siamo fatti per lavorare da casa. Molti stanno bene fuori casa, in ufficio, facendo community tutti i giorni”.

L’analisi del purpose delle aziende è il tema su cui si concentra la riflessione di Alessandro Crippa, Senior HR Director SEMEA, Gruppo Campari: è da esso che bisogna partire per arrivare al new normal. “Sia Google sia Spotify hanno recentemente fatto una scelta interessante: tornare a radunarsi nei propri ambienti, perché è solo così che recupereranno il loro purpose nel post Covid”. Ed è notizia degli ultimi giorni la stessa scelta da parte di Microsoft. “Altri hanno fatto altre scelte, perché il loro scopo e la loro essenza non risentono della distanza. Il pensiero aziendale, quindi, deve essere al centro, per far sì che l’azienda resti se stessa”.

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Sara Polotti

Sara Polotti è giornalista pubblicista dal 2016, ma scrive dal 2010, quando durante gli anni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (facoltà di Lettere e Filosofia) recensiva mostre ed eventi artistici per piccole testate online. Negli anni si è dedicata alla critica teatrale e fotografica, arrivando poi a occuparsi di contenuti differenti per riviste online e cartacee. Legge moltissimo, ama le serie tivù ed è fervente sostenitrice dei diritti civili, dell’uguaglianza e della rappresentazione inclusiva, oltre che dell’ecosostenibilità.

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