Petrolio e gas, perché l’Italia non può farne a meno

Finalmente da alcune settimane dai pozzi del giacimento petrolifero Tempa Rossa in Basilicata – su cui operano Total con una quota del 50% e Shell e Mitsui del 25% ciascuna – si stanno estraendo fra i 15mila e i 25mila barili al giorno, anche se a regime se ne dovranno quotidianamente raggiungere i 50mila.

Ai primi di febbraio 2020 la Regione e le aziende concessionarie hanno firmato l’accordo che integra e arricchisce le intese precedenti e in virtù del quale, fra l’altro, si prevede che il metano estratto insieme con greggio, pari a un minimo di 40 milioni di metri cubi all’anno per 30 anni, venga conferito gratuitamente a tutti i Lucani.

Fra gli altri punti dell’intesa si segnalano gli investimenti delle compagnie di 25 milioni di euro ogni cinque anni in sviluppo sostenibile, finanziamenti al 50% con altri 25 milioni per progetti messi al bando dalla Regione, il versamento alla stessa di 50 centesimi (indicizzati al Brent), più altri 30 centesimi per ogni barile estratto, il pagamento di 3 milioni per allestire una rete di controllo ambientale estesa a tutta la Basilicata, con 1,5 milioni per la sua manutenzione; e ancora il finanziamento di programmi di sviluppo sostenibile per 1 milione di euro l’anno per i primi cinque anni, di 2 milioni l’anno fino al decimo anno, e di 2,5 milioni l’anno dall’11esimo al 25esimo anno di produzione.

I vantaggi economici dei giacimenti lucani

Tempa Rossa è un grande giacimento scoperto 30 anni orsono dalla compagnia petrolifera belga Fina sotto la montagna che divide Corleto Perticara (Potenza) da Gorgoglione (Matera). La Total ne ha ereditato la concessione e, operando con Shell e Mitsui, con un investimento di 1,5 miliardi di euro ha costruito a 1.100 metri di altezza il centro olio più alto d’Europa per un primo trattamento del greggio, denso e solforoso, portato in superficie da sei pozzi e poi inviato tramite oleodotto nell’area della raffineria dell’Eni a Taranto.

In questo sito già arriva con la stessa pipeline e viene lavorato il petrolio estratto nell’altro grande giacimento lucano della Val d’Agri, il più ricco onshore dell’Europa occidentale, sul quale operano l’Eni al 60% e la Shell al 40% che ne realizzano a Viggiano (Potenza) un primo trattamento al Cova-Centro Olio Val d’Agri, in esercizio dal 2001 con una capacità di lavorazione di 104mila barili al giorno. Nella raffineria del capoluogo ionico verrebbe trattato il 30% di quello della Total e delle sue associate, mentre la restante parte sarebbe destinata all’esportazione via mare, resa possibile da lavori di ampliamento della locale darsena petroli.

Da quando si è avviato lo sfruttamento industriale dei due giacimenti, molto elevata è stata l’occupazione diretta e indotta assicurata in numerose aziende impiantistiche settentrionali, ma anche del territorio regionale, impegnate sui cantieri per l’allestimento dei pozzi e la costruzione dei due Centri oli, così come significativo è l’impiego di manodopera qualificata al Cova di Viggiano, mentre più recente risulta l’occupazione nell’esercizio del sito di Corleto Perticara.

I due vasti bacini estrattivi lucani – che rendono questa regione dell’Italia meridionale un piccolo Kuwait nazionale – corrispondono allo Stato e a istituzioni e popolazioni della Basilicata royalty elevate, impiegate per assicurare loro varie utilità, anche se non sono mancate nel corso degli anni forti denunce da parte di taluni organi di stampa per deplorevoli sperperi di risorse altrimenti impiegabili. Grazie comunque alle entrate derivanti dal petrolio, la Basilicata registra ormai da molti anni un Pil pro capite a prezzi di mercato superiore a quello di Campania, Puglia e Calabria.

L’Italia può permettersi uno stop all’estrazione dai suoi giacimenti?

Ma al di là di questi aspetti specificamente legati all’impiego delle royalty, bisogna sottolineare che da quando verso la fine del 1998 venne firmato l’accordo fra il Governo allora guidato da Romano Prodi – caduto peraltro poco tempo dopo la sottoscrizione dell’atto, ma non per una causa a esso riferibile – e la Regione Basilicata per avviare lo sfruttamento del giacimento scoperto anni prima, ma già ritenuto molto probabile sin dalla fine degli Anni 50 dai geologi dell’Eni di Enrico Mattei, si è venuta manifestando e radicalizzando in alcuni settori della società lucana una sistematica, insistita, irriducibile opposizione alle estrazioni petrolifere, ritenute responsabili di crescenti inquinamenti ambientali, a fronte dei quali si è giunti ad affermare persino che le royalty corrisposte a Enti e popolazioni regionali fossero irrisorie e in ogni caso da rimettere alle compagnie petrolifere.

Un radicalismo ecologista, quello appena ricordato, alimentato peraltro da alcuni ‘incidenti’ avvenuti nel corso degli anni su impianti del Centro Olio di Viggiano che hanno portato a interventi della magistratura, giunta a imporre persino il blocco totale delle estrazioni, sino a quando non sono stati realizzati dall’Eni gli investimenti per rimuovere le cause strutturali dei sinistri. Ma se sono condivisibili le sollecitazioni rivolte, e accolte più volte dalla holding pubblica italiana, a operare gli interventi costruttivi e manutentivi per migliorare costantemente la performance ‘ambientale’ del suo sito di trattamento di Viggiano, ciò che ha destato – e desta tuttora – dissenso nel management dell’Eni e fra le imprese e i loro addetti impegnati in Val d’Agri, è la continua e ormai annosa polemica degli ecologisti locali.

Questi ultimi, affiancati dalle organizzazioni internazionali di punta dell’estremismo ambientalista, chiedono la dismissione pura e semplice dei pozzi e delle attività estrattive in Basilicata, come se l’Italia, pur nello scenario della transizione energetica ormai avviata, possa già fare a meno delle estrazioni di petrolio e di gas sul suo territorio – se ne realizzano tuttora con vecchie concessioni anche in Sicilia nel Ragusano – e nelle acque territoriali di sua pertinenza, come al largo della stessa Isola e in Adriatico, ove dai vecchi pozzi si estrae gas da quasi mezzo secolo.

La posizione degli estremisti dell’ambientalismo lucano – insieme con quella degli ecologisti ‘no oil’ e ‘no gas’ di altre regioni italiane – ha finito così agli inizi del 2019 con l’influenzare a livello governativo la moratoria per 18 mesi per le nuove concessioni per prospezioni di ricerca ed estrazioni nel nostro Paese, una moratoria che il decreto Milleproroghe, approvato definitivamente al Senato a fine febbraio 2020, ha prolungato per altri sei mesi, da agosto 2020 a febbraio del 2021, in attesa che venga definito il ‘Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee’ (Pitesai) per avviarvi nuove attività estrattive. Nel frattempo, Paesi della sponda orientale adriatica autorizzano estrazioni di gas in giacimenti sottomarini che sconfinano in acque territoriali italiane, con il rischio concreto di estrarre a loro esclusivo vantaggio gas che invece apparterrebbe anche al nostro Paese.

Così l’Italia vede congelati non solo i massicci investimenti già previsti dall’Eni nell’alto Adriatico italiano per lo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas – con l’annesso declino del polo navalmeccanico per l’off-shore di Ravenna che aveva raggiunto rilievo internazionale, grazie alle attività ingegneristiche e costruttive di imprese come la Rosetti Marino, solo per citarne una – ma finisce con il rinunciare anche a estrarre petrolio dai giacimenti già accertati nello Ionio – e per i quali la Shell aveva presentato istanza per le relative prospezioni e coltivazioni – e da quelli ritenuti molto probabili dai geologi al largo della Sardegna Nord occidentale.

Ma le importazioni di greggio e di gas nel nostro Paese sono in aumento, e se malauguratamente se ne bloccassero in gran parte le estrazioni sul nostro territorio, l’aggravio per la nostra bilancia commerciale sarebbe destinato ad aumentare, con la spesa per importazioni di combustibili fossili di risorse che, invece, potrebbero essere destinate ad altri impieghi in Italia, dalla creazione di nuova occupazione giovanile alla riduzione della pressione fiscale. Allora, ce la possiamo permettere la rinuncia sia pure temporanea a estrarre petrolio e gas di cui il Paese non è povero?

estrazione petrolio, giacimenti Basilicata, Total, Eni


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Federico Pirro

Articolo a cura di

Federico Pirro è Docente di Storia dell’Industria nell’Università di Bari e ha insegnato anche nell’ateneo di Lecce Economia del territorio e Giornalismo economico. È autore, fra gli altri, di Grande Industria e Mezzogiorno (1996-2007), con prefazione di Luca Cordero di Montezemolo, (Bari, Cacucci 2008) – cui sono stati conferiti nel 2009 il Premio Sele d’Oro Mezzogiorno e il Premio Basilicata per la saggistica – e di saggi su riviste e in volumi collettanei, fra i quali L’economia reale nel Mezzogiorno, a cura di Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis (Bologna, Il Mulino 2014). Nel 2016 gli è stato conferito dal Centro Nuove proposte di Martina Franca il Premio Menichella per i suoi studi sull’industria nel Sud. Dal 1977 al 1995 è stato amministratore anche con cariche di Presidente e Vice Presidente di imprese pubbliche e private – fra cui Insud, Finvaltur, Valtur Sviluppo, Agis-Gruppo ABB, Breda Fucine Meridionali – e dal 1995 al 2000 e dal 2007 al 2016 consulente di Presidenza della Regione Puglia sulle problematiche dello sviluppo. Dal settembre del 2015 al giugno del 2018, su nomina del Ministro Graziano Delrio, è stato componente ‘esperto’ della Nuova Struttura tecnica di missione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Dal 2012 al 2016 è stato consigliere della Svimez, e dal 2015 siede nel Comitato scientifico della SRM-Gruppo IntesaSanPaolo. Dal 2000 al 2015 è stato editorialista del Corriere del Mezzogiorno/Corriere della Sera e con del suo settimanale Mezzogiornoeconomia. Oggi collabora con La Gazzetta del Mezzogiorno, i mensili Economy e Investire, con testate online e ha curato per la Rai e il Gruppo televisivo pugliese Telenorba trasmissioni sull’industria in Puglia.

Federico Pirro


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