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Plasmare la cultura, la lezione di Vasilij Grossman

Il capolavoro di Vasilij Grossman Vita e destino ha molteplici risvolti di interesse anche per la scienza dell’organizzazione, oltre a costituire una lettura coinvolgente in tempi come questi, che vedono il riaffacciarsi della guerra in Europa. Nel raccontare le varie fasi degli scontri tra tedeschi e sovietici tra il 1941 e il 1943, culminati nell’assedio di Stalingrado e nella sconfitta degli invasori, l’autore si basa sulla diretta cognizione dei fatti, osservati da vicino in qualità di corrispondente di guerra; ma l’intreccio tra eventi storici, racconti di persone coinvolte e riflessioni di ampio respiro produce una narrazione di grande intensità emotiva e di alto spessore intellettuale, che richiama e forse supera il Lev Tolstoj di Guerra e pace, almeno per la sensibilità di un lettore europeo di oggi.

Si sa che il libro poté essere pubblicato postumo solo nel 1980, eludendo la censura sovietica. La sua scrittura, ultimata nel 1960, ha costituito per Grossman un percorso di emancipazione personale, di uscita dal credo ideologico e di scoperta del valore della libertà, alimentato da una tensione di ricerca del vero e del giusto. In questa sede, posso limitarmi a individuare alcuni spunti che giudico di interesse per gli scopi di questa rubrica.

Una struttura circolare

Il romanzo contiene una miriade di personaggi dei quali il lettore rischia di perdere o confondere le tracce, ma è strutturato da una serie di situazioni che trovano riepilogo esplicito alla fine del testo. Al centro di tutto ci sono i componenti della “famiglia Šapošnikov e la loro cerchia”, riferimento per una rete di relazioni molto più estesa. I suoi numerosi membri, a partire da Aleksandra, l’anziana madre di famiglia, le sue figlie viventi Ljudmila e Ženja, i rispettivi mariti o amanti, gli altri componenti, anziani e delle generazioni successive, vivi, mancati per varie vicende, o anche detenuti in qualche lager, fino a conoscenti e amici, vivono connessioni multiple che abbracciano l’intera sfera sociale coinvolta dalla guerra.

Così, il romanzo, nei tre libri in cui è diviso per oltre 1.000 pagine, esplora questa rete di relazioni con un susseguirsi incalzante di scene, senza seguire un preciso ordine temporale o di altro genere, ma privilegiando la circolarità rispetto agli sviluppi lineari e procedendo per ondate successive, che nelle fasi di rallentamento lasciano spazio a riflessioni profonde, di valenza politica e filosofica.

Le connessioni tra i diversi membri della famiglia è allargata rispetto a una pluralità di ambienti che, a ben vedere, non sono altro che sistemi sociali, inseriti in organizzazioni di vario tipo. Si tratta di diverse strutture militari, come il corpo dei carristi, un nucleo di piloti di caccia, gli ufficiali dell’Armata rossa a Stalingrado, gli ufficiali dell’esercito tedesco a Stalingrado, la Casa 6/1, centro di resistenza estremo di eroici soldati russi, la stazione elettrica di Stalingrado, una missione militare nella steppa calmucca. Ma ci sono anche due lager, uno nazista e l’altro sovietico, il gruppo di fisici e altri scienziati, prima sfollati negli Urali e poi rientrati a Mosca in un istituto scientifico, una cella della Lubjanka con i suoi detenuti e persino il vagone di un treno diretto verso le camere a gas.

La burocrazia di un sistema totalitario

A un primo livello di lettura, si coglie l’intenso impegno di Grossman nel manifestare l’insoddisfazione diffusa per le disfunzioni tipiche del modello burocratico, le stesse che proprio la letteratura sociologica degli Anni 50 e 60 del Novecento ha ampiamente documentato, da Robert Merton, a Peter Blau, a Michel Crozier.

Per questo, l’autore dà voce soprattutto a personaggi di base, quelli che vivono sulla loro pelle le conseguenze pratiche della centralizzazione burocratica. Così, nel corso di una discussione tra scienziati e intellettuali sfollati a Kazan è l’uomo che affitta loro il locale, Artelev, a prendere la parola inaspettatamente, stimolato da un accenno allo “Stato accentratore”: “La centralizzazione ci ha soffocati! Un inventore ha proposto al nostro direttore un metodo per produrre 1.500 pezzi invece di 200 e lui l’ha cacciato via: si produce quel che ci dicono di produrre e arrivederci”.

Oppure, nella desolazione della steppa Calmucca, il dialogo tra il colonnello russo in missione e un ufficiale locale prende una piega critica sul fatto che “la burocrazia non è uno scherzo”, perché “in tempo di pace può rovinare le persone. E in prima linea può fare anche di peggio”, come quando succede che “se qualcuno ha ordinato che ‘indietro non si torna’, li lasciano lì sotto il piombo, li mandano a morire e immolano anche l’artiglieria”.

In altri passaggi, questo innesca valutazioni di ordine sociologico anche sul cinismo che deriva dalle esperienze negative: “Gli scettici e i pessimisti sono persone realiste che, per amara esperienza, hanno integrato con il sangue e il dolore l’arte della guerra. È questo che li rende superiori ai novellini ingenui”. “Loro, i veterani, sanno già come vanno le cose: li scaricheranno in prima linea, in una stazione che solo gli aerei tedeschi conoscono e al primo bombardamento i novellini perderanno un po’ della loro baldanza…”. “Per dissimulare la fretta inconsulta con cui ha mandato allo sbaraglio le sue truppe di novellini, per occultarne la morte, inutile o quasi, l’ufficiale invia ai superiori un rapporto standard: ‘L’azione estemporanea delle truppe provenienti dalla riserva ha momentaneamente interrotto l’avanzata nemica, consentendo di radunare gli uomini a me affidati’”.

Ma le cose sono più complesse, perché si tratta della burocrazia di uno Stato totalitario, quindi dominata da un potere assoluto e, al tempo stesso, impregnata di ideologia. Quando gli scienziati discutono, corrono rischi nell’esporre le proprie idee e devono confrontarsi con posizioni come questa: “Il nostro centralismo è il motore sociale di una gigantesca energia in grado di compiere prodigi. Alcuni ne ha già compiuti, altri ne verranno in futuro”. Solo un personaggio del tutto fuori dagli schemi, come lo storico Mad’jarov, può propugnare la libertà di stampa e affermare che “Stalin costruisce quello che serve allo Stato, non all’uomo”; gli altri devono, forse a malincuore, convenire che “loro hanno in mano il cuore del sistema, il sancta sanctorum, la forza vitale della burocrazia sovietica”.

Nella burocrazia totalitaria occorre anche fare i conti con una particolarità: la presenza diffusa dei commissari politici o, comunque, emissari del potere e della sua ideologia; lo schema evidenzia quanto questa presenza sia pervasiva e interessi tutti gli aggregati sociali.

La sofferenza generata da questa presenza affiora, così, nel vissuto diffuso in tutti gli ambienti e tocca particolarmente le persone più sensibili e impegnate nel conseguire performance elevate nei vari campi di azione. È il caso del fisico Štrum, che si vede emarginato dal circuito scientifico per manovre di questi emissari del potere. E anche quello del Comandante Novikov, la cui squadra di carri armati riveste un ruolo decisivo per liberare Stalingrado, ma che deve amaramente constatare che: “Sopra di lui c’erano sempre persone che non distinguevano i calibri delle armi, non sapevano leggere una mappa e nemmeno i discorsi che altri scrivevano per loro, che sbagliavano gli accenti nelle parole o le usavano a sproposito. La loro ignoranza non dipendeva da origini modeste. La forza di quelle persone era proprio l’ignoranza, si scopriva a pensare certe volte, l’ignoranza e non l’istruzione”.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Luglio-Agosto 2022 di Sviluppo&Organizzazione.
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organizzazione, Vita e destino, Vasilij Grossman, letteratura russa


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Gianfranco Rebora

Gianfranco Rebora è Direttore di Sviluppo&Organizzazione, la rivista edita dalla casa editrice ESTE e dedicata all'organizzazione aziendale. Rebora è Professore Emerito di Organizzazione e gestione delle risorse umane dell’Università Carlo Cattaneo – Liuc di Castellanza.

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