Spazio inclusivo

Cercasi ufficio inclusivo

Il fatto che sempre più persone dall’inizio della pandemia abbiano iniziato a lavorare in Smart working ha allontanato il centro nevralgico dell’attività lavorativa dall’ufficio, un luogo che per decenni ha costituito per molti settori un vero e proprio ambiente simbolo, fatto di scrivanie, scaffali, archivi, scartoffie, sale riunioni o, nel caso di ambienti più moderni, di open space con tanto di biliardino e tavolo da ping pong. Davanti alla trasformazione del lavoro le aziende si sono trovate a fare i conti con esigenze e priorità che nella tradizionale struttura degli uffici non trovavano posto.

È successo così che le organizzazioni hanno cercato di intervenire per rendere i luoghi di lavoro spazi migliori in grado di offrire opportunità che le abitazioni private – come si è visto nei lockdown introdotti per contrastare l’emergenza sanitaria – non sono in condizione di fornire, che si tratti di tecnologia all’avanguardia, di spazi confortevoli e volti a promuovere l’interazione tra persone e team o di ambienti dove è possibile trovare, paradossalmente, una dimensione di tranquillità difficile da reperire per gli smart worker che lavorano da casa.

Dal punto di vista di Jennifer Kaufmann-Buhler, autrice e docente di Storia del Design alla statunitense Perdue University, per rinnovare gli spazi di lavoro bisognerebbe uscire dalla logica dell’adeguamento ed entrare in quella della ‘trasformazione attiva’. Come? Iniziando a ragionare, prima di tutto, sulle criticità che caratterizzavano la maggior parte degli uffici molto prima dell’avvento della pandemia: si tratta di problemi che impattavano principalmente sulle persone più vulnerabili. Dunque ora per rendere gli spazi adatti bisognerebbe innanzitutto riconoscere che non lo sono mai stati.

“C’è una lunga storia di privilegio di determinate classi persone rispetto ad altre che si rispecchia anche nella struttura degli uffici”, ha spiegato Kaufmann-Buhler in un’intervista a Benefit news a questo proposito. Per la docente i ruoli che nelle organizzazioni detengono più potere sono tendenzialmente anche quelli che nelle sedi aziendali godono della massima flessibilità, con un più ampio margine di scelta, una maggiore libertà e facilitazioni volte a favorire lo svolgimento delle loro mansioni. Al contrario, questo non avviene per altri ruoli. E a farne più di tutti le spese è chi soffre di disabilità.

Soluzioni ideate solo dopo la progettazione

Spesso i problemi derivano dal fatto che gli uffici sono progettati seguendo un modello che tiene conto delle esigenze delle persone disabili solo in termini di eccezioni ed esclusivamente a seguito di interventi specifici, successivi all’ideazione degli ambienti. Lo spazio è sostanzialmente pensato a prescindere dai bisogni di questi soggetti, ai quali si cerca, in un secondo momento, di offrire per esempio una sedia adeguata o una passerella.

Le difficoltà che le persone con disabilità potrebbero incontrare non sono, insomma, trattate dall’inizio come criticità da affrontare. Per Kaufmann-Buhler, sarebbe invece il caso di farlo, anche considerando quanti aspetti complessi e contraddittori la questione porta con sé: “Per esempio un ufficio che cerca di rispondere al meglio alle esigenze di una persona su sedia a rotelle può allo stesso tempo essere un ambiente molto ostile per una persona autistica”.

Per assumere un ruolo positivo e propositivo nella trasformazione in atto, lo spazio di lavoro dovrebbe essere ripensato a partire da questo tipo di considerazioni, che ora più che mai possono coinvolgere sfere come, oltre alla disabilità, il genere e la famiglia. Che il luogo di lavoro del futuro sia un altissimo grattacielo o il soggiorno di un’abitazione il primo passo da fare è livellare la bilancia. Solo così la sensazione delle persone che qualcosa di magico possa accadere quando ci si trova fisicamente nello stesso spazio potrebbe dare i suoi risultati migliori.

Fonte: Benefit news

Smart working, diversity, inclusione


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Erica Manniello

Laureata in Filosofia, Erica Manniello è giornalista professionista dal 2016, dopo aver svolto il praticantato giornalistico presso la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli. Ha lavorato come Responsabile Comunicazione e come giornalista freelance collaborando con testate come Internazionale, Redattore Sociale, Rockol, Grazia e Rolling Stone Italia, alternando l’interesse per la musica a quello per il sociale. Le fanno battere il cuore i lunghi viaggi in macchina, i concerti sotto palco, i quartieri dimenticati e la pizza con il gorgonzola.

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