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Il Pnrr ci basterà per risollevare l’Italia?

C’è il forte rischio che buona parte dei finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) si traduca solamente in un aumento del nostro debito pubblico. È una possibilità molto concreta, con chiare e molteplici cause, ma ne esiste una che, da sola, potrebbe annullare tutti gli effetti positivi che ci aspettiamo da questo piano. Si tratta del contesto di continuo degrado del nostro sistema economico, iniziato 30 anni fa e mai fermatosi.

Come sappiamo nelle ultime tre decadi l’Italia ha perso il 30% di Prodotto interno lordo (Pil) reale rispetto ai Paesi europei a noi vicini (Germania, Francia e Spagna) e molto di più rispetto ai Paesi nordici. Analoga la situazione dei salari medi e della produttività: quest’ultima è ferma addirittura al 1970, mentre è aumentata mediamente di più del 50% negli altri Paesi europei (75% in Germania, 45% in Francia, 30% in Spagna). Il problema è che tale gap ha continuato ad aumentare fino a oggi.

La ripresa è stata influenzata dal Superbonus

Non ci deve illudere il fatto che tutti i Paesi europei sono attualmente, più o meno, in un momento di stagnazione; l’attuale piccolo vantaggio da parte dell’Italia rispetto ad alcuni di loro è infatti di entità decisamente insignificante se confrontato con il gap accumulato. Va inoltre considerato che in tali Paesi l’aumento del Pil degli ultimi 30 anni costituisce per loro una dote su cui possono contare per tenere la maggior parte della popolazione lontana dalla soglia di povertà. A questa soglia, invece, si sta avvicinando una importante quota delle famiglie italiane, visto che nel frattempo è fortemente diminuito il potere di acquisto dei nostri salari. La cosa certa è purtroppo che il piccolo aumento di Pil in corso (e previsto per il 2024) non inciderà sulla negativa tendenza di fondo della nostra economia, che è determinata da fattori strutturali sempre più penalizzanti.

Il nostro Pil reale pro-capite (cioè ciò che impatta direttamente sul nostro potere di acquisto e sul livello dei salari) è in continuo calo: oggi siamo a -2,7% rispetto al 2008, come del resto lo sono in egual misura i salari dal ben lontano 1990. La prova che tale trend negativo di fondo sta purtroppo continuando, lo possiamo capire proprio dall’andamento del Pil reale del 2023 e da quello previsto per il 2024. L’aumento di Pil dello 0,7% del 2023 è stato, infatti, ottenuto con un contributo di circa il 3% generato dall’immissione dei finanziamenti del Superbonus: senza di esso, sarebbe stato negativo persino il Pil nominale. Anche l’aumento del Pil dello 0,6% previsto per il 2024 sarà ottenuto con la coda dei finanziamenti dei bonus edilizi e, soprattutto, con l’immissione delle prime tranche del Pnrr. Senza tali immissioni sarebbe ancora negativo.

Tutto ciò conferma che senza tali apporti, il degrado continuerebbe, per di più in modo accelerato rispetto agli anni pre Covid. È come se costruissimo nuovi palazzi su di un terreno in continuo smottamento: gli edifici non staranno in piedi e saranno probabilmente assorbiti, inglobati dallo smottamento stesso. Purtroppo già sappiamo – e l’esperienza Superbonus ce ne sta dando ovvia conferma – che gli effetti di finanziamenti “una tantum” possono contribuire solamente ad aumenti del Pil temporanei e non possono affatto tradursi in una capacità di creazione di Pil consolidabile. Infatti essi non cambiano nulla nella struttura economica del Paese. Finito il finanziamento sarà terminato anche l’effetto positivo, con inevitabile riduzione del Pil nell’anno successivo. Si tratta di aumenti fittizi, generati da maggiori fatturati alimentati da pura immissione finanziaria (peraltro a debito).

Il rischio di vanificare l’effetto del Pnrr

Purtroppo, nel caso del Superbonus, tale performance temporanea è riuscita a illudere le persone poco preparate sui temi economici per le quali tale tipologia di interventi può risollevare l’economia in modo stabile. La speranza è ora però quella che invece il Pnrr possa veramente generare effetti positivi consolidabili. Dobbiamo essere consapevoli che ciò potrà avvenire solo se i finanziamenti saranno utilizzati per aumentare la capacità strutturale di aumentare il Pil da parte del nostro sistema economico. Tutti gli investimenti in infrastrutture rischiano di avere solamente un impatto tipo quello del Superbonus: maggiori fatturati da parte delle imprese coinvolte negli anni in cui si effettueranno le spese relative, ma non necessariamente miglioramenti delle capacità del nostro sistema di generare sistematicamente maggiori livelli di Pil. Ciò potrà avvenire solamente se tali investimenti avranno generato nelle imprese capacità di maggiori fatturati ripetibili (traducibili in Pil reale), grazie all’abilitazione di nuovi vantaggi competitivi ottenuti con tali investimenti.

Non è facile trovare nel Pnrr evidenze di tali caratteristiche. Anche ciò che sembra ovvio, cioè per esempio che gli investimenti in infrastrutture abiliteranno maggior business turistico, non avrà comunque effetto prima della loro ultimazione, che sarà sicuramente fra qualche anno. Ma intanto cosa succederà? All’Italia servono recuperi veloci e il Turismo è una delle poche leve utilizzabili nel breve termine, grazie ai vantaggi competitivi oggettivi che ci hanno donato la natura e  la maestria dei nostri avi.

Ma l’obiettivo di ottenere maggiori volumi turistici attraverso l’aumento della capacità ricettiva e delle infrastrutture logistiche non è la giusta leva per aumentare le nostre entrate turistiche nel breve-medio termine. Infatti non possiamo più competere in aumento di numero di presenze con la Spagna e altri Paesi in quanto, rispetto a loro, abbiamo ora minori potenziali di spazi disponibili per l’aumento delle capacità ricettive. Dovremmo invece riuscire ad allungare le stagionalità dei flussi turistici e aumentare il ticket medio di spesa del turista, da noi stranamente molto basso. Ciò richiederebbe strategie ben diverse dalle attuali – peraltro oggi difficilmente interpretabili e comunque spesso con effetti visibilmente contraddittori – e comunque non necessariamente legate a nuove infrastrutture.

Il pericolo dell’effetto negativo sul debito

Tornando al tema più generale, dovremmo cercare di capire quale quota parte del Pnrr avrà impatto sull’aumento della capacità delle nostre aziende di aumentare il Pil. E quanto si potrà ottenere nel breve-medio termine, visto che abbiamo una certa urgenza di recuperare i gap accumulati. La maggior parte degli investimenti e spese previste dal piano purtroppo non sembrano avere queste caratteristiche e alla fine potrebbe risultare maggiore il loro effetto negativo sul debito che quello positivo sull’aumento della capacità di Pil.

A riguardo abbiamo una consolidata triste esperienza: le immissioni finanziarie dei programmi del passato (Industria 4.0 inclusa) non hanno aumentato la produttività del lavoro (ferma al 1970), ma hanno ‘stranamente’ fatto registrare un aumento degli importi nei conti correnti privati (più di 1.700 miliardi in 10 anni). È questo, per inciso, il motivo per cui Paesi come Olanda e Germania sono così restii a farci fare prestiti dall’Unione europea.

È  chiaro dunque che siamo su un piano inclinato che sembra irreversibile. Forse è anche peggio: sembra più uno smottamento che ingoia tutti i finanziamenti che immettiamo. Se non cambiamo i nostri paradigmi e modelli di business non ne usciamo, perché quelli attuali ci stanno affossando. Purtroppo né i politici né gli imprenditori hanno capito quali sono i nuovi paradigmi e modelli di business cui dovremmo re-orientarci; eppure i momenti nei quali, negli scorsi anni, abbiamo perso il treno degli sviluppi necessari sarebbero ben chiari e anche le cause degli stessi. Non sarebbe difficile capire in quale direzione occorre andare, ma non si sa con chi parlarne. Per lo meno non si sa chi abbia almeno voglia di ascoltare e capire: siamo tutti “sonnambuli inerti” come dice il Censis?

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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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