Mamme e lavoro: ancora in tante costrette a lasciarlo

In Italia non si fanno figli. E chi li fa è poi costretto a lasciare il lavoro. Subito il pensiero va alle difficoltà organizzative delle famiglie che vivono ‘lontane dai nonni’ e non possono dunque contare sul loro supporto o che non hanno la possibilità di iscrivere i propri bambini all’asilo nido.

Il problema, però, è molto più serio. E molto più grave. Vi sono infatti donne che, nonostante riescano a organizzare senza problemi la propria vita familiare, sono costrette a lasciare il lavoro per la poca propensione delle aziende a gestirne le esigenze.

Quasi 30mila donne con figli minori di tre anni hanno infatti dato le dimissioni ‘volontarie’ nel 2016 (ultimo dato disponibile, fornito dall’Ispettorato del Lavoro). Per capirne di più abbiamo raccolto la testimonianza di quattro mamme (da Nord a Sud) che hanno vissuto un rientro dalla maternità complicato, arrivando a dover lasciare il lavoro.

C’è chi resiste… ma non sa per quanto

La prima testimonianza ce l’ha data Linda, una giovane mamma di 28 anni che lavora da diversi anni in un’azienda del settore farmaceutico. Ci ha raccontato che i suoi problemi sono iniziati quando ha comunicato la gravidanza alle titolari.

Una delle due, infatti, le avrebbe fatto mobbing in quanto Linda non è sposata, ma solo convivente e, secondo la sua titolare, non sarebbe  accettabile avere un figlio al di fuori del matrimonio.

Nonostante il suo lavoro richiedesse di stare in piedi tutto il giorno e a contatto con materiale biologico, non le sono venuti incontro con una riduzione di orari, né con un cambio di mansione.
Quando Linda è rientrata a lavoro dopo la maternità il figlio aveva sei mesi e non le è stato permesso di scegliere l’orario di allattamento, imponendole di fare una pausa pranzo più lunga.

Quando ha chiesto di uscire 10 minuti prima la sera, per evitare il forte traffico del rientro e poter dar da mangiare al figlio, le hanno urlato che non poteva assolutamente permettersi di avanzare una richiesta del genere dopo esser stata a casa otto mesi e che avrebbe dovuto organizzarsi con una baby sitter.

A loro dire, infatti, i figli li hanno avuti tutti e bisogna mettere in conto che, se lavori, non puoi sperare di vederli crescere.

Un giorno Linda ha ricevuto una telefonata dall’asilo del bambino perché suo figlio aveva la febbre (erano le 10.45): le sue titolari l’hanno obbligata ad andare a prendere il bambino, portarlo a casa (circa 20 km dal luogo di lavoro) e tornare a lavorare per la mezz’ora che mancava alla pausa pranzo.

Ogni qual volta Linda prova a chiedere un permesso, inoltre, le viene detto che non si può sempre dar retta ai figli e che deve assolutamente imparare a organizzarsi.

La nostra ‘testimone numero 1’ per ora sta resistendo al pressing che le viene fatto ogni giorno, ma non sa quanto ancora riuscirà a farlo.

C’è chi non ha retto allo stress

La seconda storia ce l’ha raccontata Valentina. Al rientro dalla maternità era molto felice del suo lavoro: faceva l’assistente in un’azienda che opera in ambito sanitario, dove, ci racconta, si trovava benissimo, ma gli orari le impedivano di stare con la sua bambina.

Così, a malincuore, ha deciso di cambiare azienda, trasferendosi in una realtà più vicina a casa. Il datore di lavoro però, nonostante fosse consapevole che Valentina avesse una bimba molto piccola, non era propenso a venirle incontro. Anzi.

Un giorno la neo-mamma ha chiesto un permesso di un’ora e lui l’ha obbligata a comunicargli il motivo, nonostante per legge non sia tenuta a farlo: quando si è sentito rispondere che la bambina doveva uscire prima dall’asilo e nessuno poteva andare a prenderla al suo posto, lui le ha detto che non doveva mai più succedere e, urlandole contro, avrebbe asserito che era un comportamento da ragazzine e che avrebbe dovuto organizzarsi in modo da aver sempre una copertura. E questo è solo uno dei tanti episodi. Inutile dire che dopo pochi mesi Valentina abbia dato le dimissioni…

Una ragazza è addirittura stata licenziata

Il terzo caso sottoposto è al limite della legalità. La testimonianza ci arriva da Sofia. Una ragazza che, quando è rimasta incinta, lavorava da cinque anni in una società di consulenza, con datori di lavoro che si sono mostrati da subito molto disponibili.

Arrivata al settimo mese di gravidanza Sofia ha chiesto di proseguire ancora per un mese, per poter poi rimanere a casa fino ai cinque mesi della bambina, ma non le è stato concesso. Di contro le è stato comunicato che avrebbe potuto prolungare la maternità post partum prendendosi un mese di quella facoltativa (con uno stipendio pari al 30%).

Nonostante ciò, racconta Sofia, durante l’ottavo mese di gravidanza ha continuato a lavorare da remoto, come se fosse in regime di Smart working anziché in maternità.

Giunta al termine della maternità obbligatoria la neo-mamma ha chiesto un colloquio con la titolare che le ha confermato di prendere tranquillamente un mese di congedo facoltativo, ma appena Sofia ha inviato la comunicazione al suo capo, in risposta si è vista recapitare una lettera di licenziamento.

A quel punto la nostra testimone ha avuto uno scontro piuttosto acceso con il suo titolare, facendogli notare l’illegalità del suo gesto: per evitare problemi lui le ha fatto un nuovo contratto. A tempo determinato. Un contratto a rinnovo mensile, per impedirle di prendere la maternità facoltativa. Una proposta che ovviamente Sofia non ha accettato.

C’è chi, dalla maternità, non è mai rientrata

Infine un caso di dimissioni ‘volontarie’, che tanto volontarie non sono. La storia arriva da Alessandra, giovane mamma che lavorava in una società di consulenza in outsourcing. Un’azienda di medie-piccole dimensioni (circa in 20 persone, fra collaboratori e dipendenti).

Quando Alessandra ha comunicato la gravidanza le è stato detto che si sarebbe dovuta mettere in maternità anticipata (quindi perdendo il 20% dello stipendio), per evitare di chiedere permessi per visite mediche ed esami.

Inoltre, a seguito del periodo di congedo obbligatorio, è stata obbligata a prendere la maternità facoltativa (quindi percependo solo il 30% della retribuzione) e l’aspettativa (non retribuita) fino ai 12 mesi del bambino, per evitare di utilizzare le ore di allattamento, “gravando sull’attività della società”, come le ha detto il titolare dell’azienda.

Quando il bimbo di Alessandra ha compiuto 10 mesi, la neo-mamma ha chiesto un appuntamento per richiedere una riduzione dell’orario lavorativo al suo rientro (il part time che le neo mamme possono chiedere fino ai tre anni del bambino), ma le è stato negato.

A quel punto Alessandra è stata costretta a prendere la decisione di lasciare l’attività, dando le dimissioni. Ma non è tutto. Quando ha comunicato la sua scelta le hanno chiesto di aspettare che il figlio avesse compiuto un anno per evitare di pagarle il preavviso (e perdendo, pertanto, la possibilità di richiedere la disoccupazione).

La solita Italia?

Questi sono solo alcuni esempi di come le aziende trattano le donne al rientro dalla maternità. E quel che è peggio è che, nella maggior parte dei casi citati, chi attua pratiche di mobbing nei confronti delle lavoratrici è donna. E anche madre. Chi dovrebbe maggiormente comprendere e condividere le difficoltà delle neomamme fa di tutto per ostacolarle e farle sentire inadatte.

“Noi italiani siamo sempre i soliti…” questo è il primo pensiero che si crea nelle nostre menti, leggendo le testimonianze riportate. Abbiamo però ricevuto racconti anche da parte di mamme della vicina Svizzera, costrette dai propri datori di lavoro a dare le dimissioni dopo esser rientrate dalla maternità. E non solo: imprenditrici che hanno ceduto la loro attività perché lo Stato non è in grado di tutelarle. Ma questa è un’altra storia.

È necessario un cambio di cultura, ma finché fra donne ci si fa la guerra anziché supportarsi sarà difficile far comprendere al mondo le difficoltà di conciliare la vita lavorativa con quella professionale.

donna al lavoro, genitorialità, maternità, congedo maternità, diritti delle neo-mamme


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Francesca Albergo

Laureata in Scienze Umanistiche per la Comunicazione – percorso del teatro e dello spettacolo – Francesca Albergo ha successivamente conseguito un master in Professioni e Prodotti per l’Editoria. Dopo un’esperienza di cinque anni nelle Risorse Umane – durante i quali non ha mai abbandonato lettura e stesura di testi – la passione per le parole, la scrittura e (soprattutto) la grammatica l’ha portata a riprendere la sua strada, imparando a ‘vivere per lavorare’, come le consigliò un professore al liceo. Amante della carta e del ‘profumo dei libri’ si è adattata alla frontiera digital dell’Editoria, sviluppando anche competenze nella gestione di CMS. Attualmente collabora in qualità di editor e redattrice con case editrici e portali web. Nella sua borsa non mancano mai un buon libro, una penna (rigorosamente rossa) e un blocco per gli appunti, perché quando un’idea arriva bisogna esser pronti ad accoglierla.

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