Runner Pizza, se il rider corre più veloce delle norme (e del Covid-19)

Quando il rider si chiamava ancora “fattorino”, Runner Pizza consegnava già pasti a domicilio. Vent’anni fa in Italia non lo faceva praticamente nessuno, ma Tiziano Capitani, imprenditore fiorentino, con uno sguardo rivolto al mondo, capì che poteva essere il suo futuro. Un passato da giovanissimo imprenditore edile, Capitani si riconosce “innata predisposizione all’impresa, volontà di affermazione, determinazione”.

Runner Pizza è, oggi, una delle tante imprese che, a causa della diffusione del Covid-19, è stata chiamata a rivedere le proprie procedure di consegna, per garantire la sicurezza dei rider e dei clienti. “Siamo stati in dubbio se chiudere o continuare”, dicono dall’azienda, ma è prevalso il senso di responsabilità nei confronti dei dipendenti. Lo stesso senso di responsabilità che in passato ha permesso a Runner Pizza di avere il primato della contrattualizzazione dei rider.

Per rispondere all’emergenza sanitaria e assicurare la continuità delle attività lavorative, sono state riviste tutte le procedure aziendali: le postazioni di call center sono state quasi tutte attivate in remoto; il personale che lavora in amministrazione è stato posto in telelavoro, il 50% alla volta, in modo che possa ruotare su turni, mantenendo il distanziamento sociale tra colleghi, in ufficio; tutti gli ambienti di lavoro sono stati dotati di riferimenti visivi, per indicare a colpo d’occhio le distanze di sicurezza; i laboratori sono stati dotati di barriere per evitare il contatto diretto tra cuochi e fattorini.

Anche la consegna al cliente avviene nella massima sicurezza. Gli viene richiesto di lasciare una sedia davanti alla porta di casa. Può pagare online, oppure lasciare i contanti sulla sedia. Al momento dell’ordine dovrà indicare se questi sono precisi, oppure se necessita di resto. In questo caso, il rider parte già con la cifra giusta; poi prende i contanti dalla sedia e lascia, in cambio, le pizze. Un sistema semplice, ma efficace, per poter continuare a garantire il servizio, anche a coloro che hanno minor dimestichezza con i pagamenti online.

Tuttavia, i flussi sono cambiati: in questo momento, gli ordini sono, per lo più, di singoli. Runner Pizza ha deciso di non far pagare la consegna a nessuno: è facile capire che il delivery gratuito di una sola pizza sia pressoché in perdita. Per l’azienda si tratta di una scelta etica: desiderano garantire comunque un servizio utile a tanti, in un momento critico per tutti. Non solo: Runner Pizza effettua le consegne di uova di Pasqua per conto di un’Associazione locale, che raccoglie fondi per i malati terminali di tumore. “D’altra parte, la nostra caratteristica è sempre stata la grande reattività al cambiamento: anche stavolta ci siamo subito adattati alle circostanze, nel miglior modo possibile. Stiamo cercando di fare la nostra parte”.

Dagli Usa l’intuizione per il food delivery

La sua parte, Capitani l’ha iniziata a fare a 34 anni quando si sentì a un punto di svolta: vendette l’azienda edile che aveva costruito da zero e si prese un anno sabbatico, per viaggiare con la famiglia. Ma Capitani è “imprenditore nell’anima”, dunque il suo sguardo, in ogni tappa, restava vigile sulle idee e i modelli esportabili in Italia.

È così che, negli Usa, scoprì il food delivery e capì che anche in Italia i tempi erano maturi per provarci: “Nel nostro Paese stava cambiando il ruolo della donna, nel mondo del lavoro e nella società. Dunque stavano cambiando – o era prevedibile che sarebbero presto cambiate – anche molte abitudini sociali. La prima sarebbe stata senz’altro l’alimentazione; meno donne casalinghe significava meno tempo (e forse meno voglia) di cucinare. Un lasciapassare per le consegne a domicilio di piatti pronti”. Un’illuminazione che si è rivelata profetica, ma rivoluzionaria per i tempi: “Ho investito in un progetto che, per l’epoca, era innovativo anche dal punto di vista tecnologico. Sono partito con una informatizzazione ‘spinta’ del servizio, che nel nostro Paese non era per niente diffusa”.

In maniera un po’ machiavelliana, Capitani ammette di avere avuto “le capacità imprenditoriali, ma anche le condizioni e l’occasione giusta per provarci”. Da qui è nata così Runner Pizza, che oggi annovera 13 punti vendita in Toscana, tra Firenze e Prato, ma che ha grossi obiettivi di espansione nell’immediato, “nelle città dai 40mila ai 200mila abitanti del Nord Italia e del Centro, le meno appetibili per i colossi del food delivery”.

Personale assunto per garantire la qualità al cliente

La differenza fondamentale con le grandi piattaforme è che Runner Pizza non consegna cibo di altri, ma lo produce nei 13 siti di cui è proprietaria. Si prenota tramite sito internet, App o numero di telefono, scegliendo il proprio menù che arriverà a domicilio partendo dal ristorante più vicino. In alcuni di essi è disponibile qualche tavolo per consumare il pasto in loco, ma per lo più si tratta di cucine a vista dedicate alla produzione. I dipendenti sono 240, di cui 140 i rider.

Sì, perché la particolarità di Runner Pizza, come detto, è proprio questa: aver contrattualizzato i rider. “Quando, nel 2019, abbiamo deciso di compiere il passo c’era un grande vuoto normativo. I rider erano – e sono ancora – sottoposti alle più svariate forme di collaborazione. Lavoratori autonomi, occasionali, Co.co.co.: anche il Legislatore, così come la contrattualistica, brancolavano nel buio”, dice Capitani. In mezzo c’è stato il lodevole tentativo della Carta di Bologna, sottoscritta solo da alcuni dei colossi della consegna a domicilio, che, tuttavia, è un documento di intenti, che “prevede alcuni impegni, ma non stabilisce alcun obbligo di contrattualizzazione dei fattorini”.

Questo ha aperto la strada a numerosi problemi, per esempio “al tema del subaffitto delle licenze, che causa forme di sfruttamento dei più deboli, immigrati senza documenti, persone disperate”. Ma sono emersi anche temi di “sicurezza per il consumatore, che si vede entrare in casa persone ignote, e di igiene, perché i contenitori usati sono lasciati alla cura e alla manutenzione dei singoli rider, che è pressoché nulla”.

Le cose sono diverse quando si parla di dipendenti: “Innanzitutto inviamo a casa del cliente persone ben note. Inoltre abbiamo massima cura dell’igiene, in tutti i processi produttivi, fino alla tavola del consumatore; quando si consegnano cibi prodotti da terzi, queste garanzie, è evidente, non ci sono”. L’assunzione dei rider, dunque, “è stata una questione di rispetto verso i lavoratori, ma anche verso i clienti”.

Nondimeno verso le istituzioni: “Abbiamo indicato noi la strada al Legislatore, ora speriamo che sappia tenere in considerazione la nostra esperienza”, osserva Capitani. Senza alcuna vena polemica: “È più quello che abbiamo dato allo Stato di quello che abbiamo ricevuto, ma siamo contenti così: l’imprenditore deve fare impresa a prescindere, senza aspettarsi particolari aiuti pubblici, ma mettendo in conto di poter, al contrario, dare qualcosa alla società”.

Il lavoro come ammortizzatore sociale

Tra i dipendenti di Runner Pizza oltre ai rider, ci sono altre 100 persone tra cuochi, centralinisti, amministrativi. Le nazionalità rappresentate sono 32, al 75% uomini. Sono tutti dipendenti: a ogni categoria si applica il contratto collettivo più consono. Quello della Logistica e Trasporti per i fattorini, quello del Commercio per i cuochi, dei Servizi per i centralinisti, con vari adeguamenti nella contrattazione di secondo livello, concordati con i sindacati per renderli equi e soddisfacenti per tutti: “Abbiamo voluto fare le cose al meglio”, spiega Capitani. Anche perché è sempre bene tutelare e tutelarsi.

Nel 2016 un rider di Runner Pizza morì in un incidente in scooter, nel suo primo giorno di lavoro, a causa della segnaletica stradale. “È chiaro che anche questa tragica fatalità ha contribuito a indurci ad agire verso una tutela sempre più forte di questa categoria professionale”, dice Capitani, che per la vicenda fu assolto con formula piena.

In questo anche i sindacati e il Legislatore devono compiere uno sforzo: “Come spesso avviene, le aziende, che hanno esigenze molto concrete, arrivano alle soluzioni ancora prima dei governanti. Però ognuno deve fare la sua parte. Noi ci facciamo promotori di un cambiamento, tramite la collaborazione con i sindacati, ma anche la politica deve fare altrettanto per trovare una soluzione che valga per tutti, non solo per Runner Pizza. Il problema della atipicità di questa professione va affrontato, esaminato a fondo e vanno trovate soluzioni che siano sostenibili, tenendo conto della necessaria flessibilità della tipologia di lavoro”.

Un lavoro che, per Capitani, è quasi “un ammortizzatore sociale”. “Assumiamo tante persone che hanno perso il posto a causa della crisi. Non si tratta solo di studenti che vogliono arrotondare; ci sono tanti padri di famiglia che, attraverso quello che sembra un ‘lavoretto’, riacquistano dignità”.

Un ‘lavoretto’, infatti, è tale se è occasionale: diventa un vero lavoro se è equamente contrattualizzato. “Il tema della sostenibilità di questa professionalità, dunque, è anche sociale: noi ci auguriamo di avere creato un utile precedente”, osserva Capitani, che ha molti progetti per il futuro: “Abbiamo un piano importante di sviluppo nei prossimi tre-cinque anni, vogliamo investire 15-16 milioni di euro, aprire altri 100 punti vendita, senza escludere la partecipazione di fondi”. Idee ambiziose, che interpellano un intervento più deciso di tutte le parti in causa, in termini di regolamentazione del lavoro.

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Chiara Pazzaglia

Bolognese, giornalista dal 2012, Chiara Pazzaglia ha sempre fatto della scrittura un mestiere. Laureata in Filosofia con il massimo dei voti all’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, Baccelliera presso l’Università San Tommaso D’Aquino di Roma, ha all’attivo numerosi master e corsi di specializzazione, tra cui quello in Fundraising conseguito a Forlì e quello in Leadership femminile al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Corrispondente per Bologna del quotidiano Avvenire, ricopre il ruolo di addetta stampa presso le Acli provinciali di Bologna, ente di Terzo Settore in cui riveste anche incarichi associativi. Ha pubblicato due libri per la casa editrice Franco Angeli, sul tema delle migrazioni e della sociologia del lavoro. Collabora con diverse testate nazionali, per cui si occupa specialmente di economia, di welfare, di lavoro e di politica.

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