Far emergere la ricchezza delle persone

Quando ho iniziato a leggere La vita non è uno Smart working, l’ultimo libro di Pier Luigi Celli, immaginavo che mi sarei trovato di fronte a un trattato con risposte alle tante domande che avevo e con indicazioni operative precise.

Non è che non ci siano riferimenti e suggerimenti precisi, ma man mano che procedevo nella lettura mi rendevo conto che primariamente venivo stimolato al ragionamento, al pensare con la mia testa alle implicazioni che la trasformazione che sta affrontando il nostro mondo avranno – o meglio stanno già avendo – sull’organizzazione interna delle aziende e sui rapporti gerarchici al loro interno. Soprattutto, via via che proseguivo nella lettura, aumentava in me la consapevolezza della necessità di cogliere le opportunità ‘imposte’ repentinamente e inaspettatamente da questa pandemia.

L’esigenza espressa fortemente all’interno del libro – o almeno quella che ho percepito in maniera preponderante – è quella di non cercare di far finta che non sia successo nulla né ricondurre il tutto a schemi organizzativi basati sulla gerarchia (che implicitamente garantiscono il potere dei capi) e di comprendere come poter finalmente far emergere la ricchezza e la varietà delle persone, indipendentemente dal fatto che siano capi o meno. Il mondo è cambiato, non c’è dubbio! Le aziende pure. Non tutto è avvenuto o avverrà senza scossoni, ma il vantaggio competitivo che se ne potrà trarre sarà sicuramente – se valorizzato nel modo corretto – superiore a quello che si è perso. Questo è un altro messaggio che secondo me traspare dalle pagine del libro, anche se non è mai espresso esplicitamente. Un ottimismo e una speranza di fondo sul valore da attribuire alle singole persone.

Il superamento della gerarchia come potere

Qualcuno soffrirà del cambiamento e probabilmente – come si dice ripetutamente nel libro – saranno principalmente i capi intermedi a doversi confrontare con questo tsunami. Ma saranno anche coloro che, se sapranno utilizzare la delega vera, quella obbligatoriamente applicata in questi periodi di lockdown, quando il controllo visivo non poteva essere esercitato, ne trarranno i massimi benefici. Ad avvantaggiarsene saranno anche i lavoratori che ne sapranno approfittare per dimostrare il proprio potenziale, per far emergere quelle conoscenze nascoste in ognuno che alla fine definiscono il vero valore di un’azienda, più che per il mero profitto, misurabile come la capacità di estrarre il valore tangibile da ogni dipendente.

In un passo del libro si legge: “Perché si arrivi a un modo di lavorare veramente diverso, servirà per esempio la possibilità dei lavoratori di concordare con l’azienda gli spazi di autonomia nello scegliere quando e dove farlo a distanza, e nel fare accettare all’azienda il riconoscimento che, perché la nuova organizzazione abbia un senso condivisibile, è necessario valorizzare la cooperazione dei propri dipendenti, tenendoli dentro il processo delle scelte e chiamandoli al confronto sugli strumenti da utilizzare nel perseguirle. Tenuto conto, una volta capito quanto i risultati se ne possano avvantaggiare, delle ragioni della vita e delle esigenze del lavoro”.

Il vero nocciolo della scommessa sta proprio nel superamento della gerarchia utilizzata come esercizio di potere (divide et impera) e nell’accettazione della condivisione e messa a valore delle capacità di ognuno, in un paradigma organizzativo molto più collaborativo e meno gerarchico, che valorizzi le capacità delle persone mettendole a fattor comune dell’azienda.

Scrive sempre Celli: “In una prospettiva inevitabile di cambiamento, verso logiche meno gerarchiche e formali, serve necessariamente autorevolezza. E l’autorevolezza […] esiste o non esiste. E dipende in larga misura dalla capacità dei capi di poter fare a meno, per essere seguiti, di un esercizio del potere legato alla posizione occupata o di quello del ruolo che li abilita a comandare”.

Aggiungo che come tecnico, tecnologo, e non uomo di risorse umane, ho sempre pensato che la tecnologia debba essere un supporto all’attività lavorativa, ma anche una complice del risultato che si può ottenere mettendo insieme processi, tecnologia e capacità umana. Non c’è, secondo me, una tecnologia ben fatta o mal fatta: ne esiste solo una che aiuta l’uomo a raggiungere i risultati che si è prefissato, cavalcando le diversità e le necessità del momento con un occhio verso il futuro.

Credo che questa visione sia abbastanza vicina a quella espressa da Celli. Infatti scrive: “La tecnologia non è più semplicemente una infrastruttura, o una commodity, e non è neppure riducibile a una tecnica che lega le diverse risorse in campo. Essa è, più propriamente un sistema, un nuovo paradigma. […] Possiamo dire che si tratta della disciplina più avanzata per dominare tutte le variabili in gioco in questo processo di cambiamento”.

Concludo questo mio commento nello stesso modo in cui conclude Celli stesso: “Serve solo il coraggio di seppellire pratiche morte e pensieri senza più destinatari”. Non credo ci sia altro da aggiungere.

L’articolo è pubblicato sul numero di Maggio-Giugno 2021 della rivista Sviluppo&Organizzazione.
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