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Crollo delle nascite, all’Italia serve una nuova cultura della genitorialità

Quello dell’Istat a proposito del calo delle nascite è solo l’ultimo allarme sulle culle vuote in Italia. Nel 2019 sono nati appena 435mila bambini, che paragonato al dato del 2008 vuol dire 140mila nascite in meno (un saldo negativo di oltre mezzo milione se confrontato agli Anni 60 del baby boom).

I pericoli della fotografia scattata dall’Istat sono concreti e presto ne toccheremo con mano gli effetti. Già il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha invitato a contrastare questo fenomeno, perché “si rischia un indebolimento del tessuto del Paese“.

Nei giorni successivi alla pubblicazione dei dati, si sono susseguiti articoli e commenti sul tema della maternità, quasi tutti concentrati sul fatto che nel nostro Paese manchino le strutture adeguate – e gli incentivi – per gestire i figli. Per la verità ci sono state anche voci che hanno provato a spostare lo sguardo su altro. Per esempio, Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, ha parlato di “problema culturale“, legando però al “narcisismo di massa” e all’incapacità di “fare sacrifici”.

Ammesso che certamente ci sono Paesi – in particolare nel Nord Europa – che offrono ben più strumenti a sostegno della genitorialità rispetto all’Italia (la Finlandia è, secondo Save the children, lo Stato dove vivono le mamme più felici del mondo), vorrei concentrarmi sul tema della mancanza di cultura e in particolare sul ruolo delle aziende.

Per le organizzazioni la sfida è conciliare la genitorialità con la produttività. Le soluzioni, dicono gli esperti, sono svariate. Per esempio, si può lavorare in un modo più flessibile che lasci ai collaboratori maggiore scelta nella gestione dei propri tempi di vita privata e lavorativa, comprendendo soprattutto l’importanza che i lavoratori – madri e padri – prendano il tempo per dedicarsi alla famiglia. Di questo tema ne ha scritto Elena Barazzetta in Genitori al lavoro. Il lavoro dei genitori (ESTE, 2019), alla cui stesura ho partecipato condividendo alcune personali esperienze di paternità.

Non bastano i servizi a stimolare le nascite

L’invito è quello di imporre un vero cambiamento organizzativo, che consenta alle aziende di introdurre una nuova cultura. La cronaca è, infatti, piena di casi di donne incinta che suggeriscono come in Italia ci sia un problema culturale. Posso citare il caso, riportato da La Stampa, di una lavoratrice della provincia di Taranto al quinto mese di gravidanza, messa alla porta dalla cooperativa sociale in coincidenza con il cambio di appalto nel servizio di assistenza domiciliare.

Esattamente contrario a questo, ma che evidenzia ugualmente i limiti culturali legati alla genitorialità, c’è il caso della dipendente precaria assunta nel momento in cui ha comunicato di essere incinta. Di certo un gesto, quello dell’imprenditore, che va controcorrente, ma resta il dubbio sul perché abbia aspettato questo particolare momento per procedere con la stabilizzazione della dipendente, che in realtà lavorava da anni in azienda. Se, come è stato detto dal capo azienda, la dipendente è stata assunta in quanto “troppo importante per lasciarla scappare”, perché aspettare così tanto tempo per stabilizzarla?

Ancora più noto (e recente) è la vicenda della ricercatrice precaria dell’Istituto malattie infettive Spallanzani di Roma, assunta dopo anni di precariato. L’ospedale ha spiegato che la procedura di assunzione in realtà era partita prima della vicenda del coronavirus, tuttavia è singolare che la ricercatrice, parte del team che ha isolato il virus finendo ampiamente sui giornali, abbia ottenuto la stabilizzazione proprio adesso…

Nel mio personale bagaglio di esperienze, posso anche testimoniare un’ulteriore storia. Si tratta di una manager di una multinazionale che per non essere costretta a rinunciare al suo ruolo di responsabilità, ha scelto (scelta in libertà o per imposizione?) di tornare in azienda il più rapidamente possibile, per evitare di essere ‘scavalcata’ da altri colleghi.

Torno quindi al tema della cultura in azienda e alla sensibilità per il tema della genitorialità. Finché le organizzazioni non risolveranno questi limiti culturali e non si instaurerà un nuovo atteggiamento da parte non solo degli imprenditori e dei manager, ma anche dei collaboratori stessi, dubito che il nostro Paese possa risolvere il problema delle nascite semplicemente attivando nuovi servizi. Perché non è (solo) con l’asilo nido che si riempiono le culle.

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Dario Colombo

Articolo a cura di

Giornalista professionista e specialista della comunicazione, da novembre 2015 Dario Colombo è Caporedattore della casa editrice ESTE ed è responsabile dei contenuti delle testate giornalistiche del gruppo. Da luglio 2020 è Direttore Responsabile di Parole di Management, quotidiano di cultura d'impresa. Ha maturato importanti esperienze in diversi ambiti, legati in particolare ai temi della digitalizzazione, welfare aziendale e benessere organizzativo. Su questi temi ha all’attivo la moderazione di numerosi eventi – tavole rotonde e convegni – nei quali ha gestito la partecipazione di accademici, manager d’azienda e player di mercato. Ha iniziato a lavorare come giornalista durante gli ultimi anni di università presso un service editoriale che a tutt’oggi considera la sua ‘palestra giornalistica’. Dopo il praticantato giornalistico svolto nei quotidiani di Rcs, è stato redattore centrale presso il quotidiano online Lettera43.it. Tra le esperienze più recenti, ha lavorato nell’Ufficio stampa delle Ferrovie dello Stato italiane, collaborando per la rivista Le Frecce. È laureato in Scienze Sociali e Scienze della Comunicazione con Master in Marketing e Comunicazione digitale e dal 2011 è Giornalista professionista.

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